Il coraggio al profumo di alici - Live Sicilia

Il coraggio al profumo di alici

Anteprima dal numero di "S" in edicola
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4 min di lettura

La vita di Andrea Vecchio cambiò rotta in occasione della cottura programmata di una pasta con le alici. Sono diversi gli ingredienti che possono mutare il grado di calore di un’esperienza. Sono molteplici i sapori che si amalgamano sul fondo della pentola di una mattinata. Si rapprendono e formano la pietanza quotidiana. Il giorno in cui la vita di Andrea Vecchio – coraggioso imprenditore catanese antiracket – cominciò ad assaggiare un altro sentiero è dunque indissolubilmente legato al gusto e all’odore di un piatto di pasta con le alici.
Sentiamolo: “Ero stato al mercato, alla pescheria, a comprare il pesce. Tra i banchi dei pescivendoli un gran vociare, grida per attirare l’attenzione dei clienti. Cassette di alici argentee, scintillanti, attirano la mia attenzione e mi fanno pensare a quel mazzo di finocchietto selvatico che mia moglie aveva raccolto a Santa Maria La Scala, dove era andata a prendere le nespole (…). Pensando a quel finocchietto ho comprato le alici e ho pregustato il piacere di un piatto di pasta profumata e fumante. A Palermo la preparano con le sarde, saporite ma molto grasse, a Catania preferiamo le alici, i mascolini. Era un sabato mattina tra la fine di aprile ed i primi di maggio, non ricordo bene, ma ricordo che era una splendida mattina di sole, con un cielo pulito e terso e un azzurro splendente. Era l’anno 1982”.

L’imprenditore passeggia tranquillamente col suo carico goloso fino all’ufficio: “Mentre infilo la chiave per aprire, sento squillare il telefono, lascio la porta aperta e la chiave nella serratura, mi affretto per rispondere, poso a terra, sulla soglia, il sacchetto con il pesce e corro a prendere il
telefono. Alzo la cornetta, la porto all’orecchio e rimango impietrito, quasi paralizzato. Una voce rabbiosa, rauca, perentoria, in siciliano, con dei tentativi di italiano sconnesso, mi diceva che non ero in regola, che dovevo mettermi in regola, che dovevo preparare subito cinquanta milioni di lire, che dovevo cercare un amico ‘n’amicu bonu’, perché in regola non ero, ed in regola mi dovevo mettere”. È il foglorante incipit della storia che apre il libro “Ricette di legalità” (I libri di “S”, 95 pagine, cinque euro), uno dei volumi editi dalla Novantacento. L’idea piace: raccontare una grande storia – la vicenda di una personale ribellione all’obbligo funesto del pizzo che ha fatto epoca e giurisprudenza – mischiandola a scaglie di piccole storie, segnate da un sapore, da un odore, dalla lucentezza esausta e soddisfatta di una pietanza.

È un’acuta operazione di minimalismo. Le categorie della morale discendono direttamente in cucina. I profili di marmo degli eroi contemporanei si scoprono per quello che sono realmente: lineamenti friabili come biscotti, cuori, logicamente atterriti dalla violenza, in quanto umani. Tuttavia, sono stati proprio quei muscoli cardiaci incalzati dal ferro e dal fuoco della minaccia ad inventarsi mille valorose reazioni individuali, riunificate in una memorabile reazione collettiva.
Questo Paese non ha confidenza con i suoi esponenti migliori. Li immagina incasellati in una dimensione astrale dove coraggio e rispetto di sé sono beni immediatamente e facilmente disponibili per certe categorie di superuomini. Li allontana con la liturgia degli anniversari e delle commemorazioni. È incapace di trarre linfa quotidiana dalle loro biografie. Falcone e Borsellino invecchiano sulle facciate degli aeroporti e delle scuole. Morti, come le statue morte e le intitolazioni che li rammentano alla distrazione dei passanti.
Andrea Vecchio, col suo prezioso libro, restituisce una goccia di sangue all’eroismo, lo colloca in una sfera non più inumana. Ci spiega che il valore sboccia dalle cose minime, che la difficile onestà germina dalla fragilità. Nessuno – sembra dirci – nasce con la vocazione al martirio (che ha gradazioni infinite: dal disagio di una esistenza blindata al sacrificio finale), ma tutti possiamo cucinare la nostra dignità, con un buon libro di ricette, non perdendo di vista gli ingredienti giusti e il loro peso.Lui quasi si scusa, nell’introduzione, di avere tanto osato con i suoi risotti ai funghi e le paste con i broccoli e gli spaghetti alla Norma (ottimi e competenti vademecum culinari per la preparazione sono davvero contenuti nel libro). Domanda perdono: “Mi sono deciso a scrivere, chiedendo sin d’ora scusa alla lingua italiana…”. Invece lo stile è ricco e piacevole come un piatto ben calibrato.

Scrive Andrea Camilleri nella sua prefazione-saluto: “La lezione che si ricava dal suo scritto mi pare esemplare. Lei non ha mai chinato la testa, ha avuto sempre fiducia nella legge, non si è mai sottratto a questa regola di vita, nemmeno dopo gli attentati e gli incendi che la sua impresa ha subito e alla fine ha vinto, potendo così mangiare con una certa soddisfazione le meravigliose pietanze che sa preparare. Lei non ha cucinato solo broccoli, funghi o alici, lei ha fatto friggere in padella anche la mafia”. E quando gli storici di domani cercheranno il coraggio di questa Sicilia, lo troveranno anche in un piatto di alici del colore del mare.


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